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Video | Oggi dolcetto o scherzetto, ma nelle nostre campagne era "La tavola per i morti"

Con il professor Francescso Stoppa alla scoperta delle tradizioni popolari legate al culto dei morti in Abruzzo

Di vigilia in vigilia, (Compagnia Tradizioni Teatine)

Mercoledì 1 novembre, presso Palazzo Valignani a Torrevecchia Teatina si svolgerà un programma dedicato al culto dei morti nella tradizione, dalle ore 19 alle ore 22, si parlerà dei riti, dell’elaborazione del lutto, del significato più profondo di rinascita, lasciando spazio agli interventi personali dopo l’introduzione tenuta da Giuliano Petaccia. Con l’occasione oltre ai canti polivocalici tradizionali si offriranno i cibi magico devozionali legati alla vigilia di Ognissanti e I Morti. Una tavola dei morti esemplificativa per chi non conoscesse questa tradizione sarà allestita e visitabile avendola dedicata simbolicamente alle anime del purgatorio.

Le vigilie

I tradizionalisti e benpensanti si scagliano contro “Halloween” per l’aspetto pagano e stregonico che ha assunto in Italia ma anche perché è considerata roba d’altri. Ciò si contrappone al travolgente successo della festa che rischia di diventare sempre più importante. Non è solo una semplice montatura ma un fenomeno legato al fascino antico che la festa conserva. Halloween nel nome porta due significati profondi: la “notte dei doni” e della “santificazione” ovvero dei “doni consacrati”, ma suona anche come la notte cava in cui vagano spiriti e fantasmi. Frankestein, vampiri, zombie di recente invenzione, sono proprio le figure adatte a popolare oggi questo mondo cavo, sono morti non morti che vivono sulla Terra. Si dice che Halloween sia di origine celtica, anche perché tutto ciò che appare aurorale e notturno è diventato “celtico” o “elfico” o “gnomico”. In realtà la festa esisteva anche da noi, con caratteristiche simili in tutta Italia. In Abruzzo la vigilia di Ognissanti si salda nella tradizione con la settimana di devozioni e riti legati al culto dei morti. I ragazzi portavano zucche intagliate con occhi e bocca, con denti fatti di canna e lumini accese all'interno, o anche lanterne in carta oleata. La zucca tradizionale (checocce priatorije) è la" corritrice", molto dura, che veniva data ai porci e alle vacche "Sangue nen tè, sangue nen mette e fije nen fa fà". Quale che fosse la zucca, i ragazzotti più spavaldi (bazzariottə) a gruppi di tre o quattro, facendosi coraggio a vicenda si avventuravano nei luoghi proibiti, come i quadrivi, perché “la ci sono riferimenti” cioè i tramiti con il mondo degli spiriti e della magia. Quelli più timorati si limitavano a sfilare per le vie con le suddette lanterne, scandendo i passi con una filastrocca: la cì la cì, la cì, la vera cirǝ; lacì lacì, la vera cirə; lu peparole rušce; chi li chinošce, chi li chinošce; potevano ricevere qualche frutto secco, un melograno e se erano fortunati i frittini (sgajuzzə). Tutti gli altri rimanevano in casa, a mangiare “povero e poco”, la mattina lu pane cottə e sera la verza con aglio e bastardoni, e una sardella salata fritta. Ma siccome il popolo per realizzare un desiderio spirituale ha bisogno di farlo cibo si preparava anche lu‘rranə acconcə rituale a base di grano saracenom noci, mandorle, sapa e chicchi di melograno. Il consumo di questo cibo germinale nelle vigilie  ha un significato fortemente propiziatorio, come la cuccia che si mangia in Sicilia a Santa Lucia oppure le famose lessagne o virtù del primo Maggio. Avendo spezzato una lancia a favore di una radice antica nostrana per la festa di Halloween, ciò non significa che siamo autorizzati, anzi a maggior ragione, a trasformarla in una festa scema e priva di contenuti. Inoltre essa anticipa un'altra festa più importante quella dei Morti.

Mai i nostri antenati si sono dimenticati dei loro defunti e dei defunti dei loro defunti. Il senso della stirpe e il culto dei morti nella cultura contadina è una forma di continuità che da senso sia alla morte che alla vita che supera perfino l’affetto della memoria dei propri cari e finisce per estendersi a tutti i morti della collettività (l’Almə Santə də lu Preadòrijə). Memoria e protezione, rispetto ed attesa di ricongiungimento, cosi come vuole il gioco delle parti tra vivi e morti in questi giorni. In realtà cosi come per i Lares Familiares dei Romani un piccolo spazio della casa era dedicato alla memoria perenne, un frammento di foto, o anche solo un foglio con scritti i nomi con grafia incerta, un mazzolino di semprevivi una cornice di velina traforata a merletto, a volte una piccola lucerna (la sperə), per le occasioni “ricordevoli”. La disposizione seguiva l’antica iconografia che vuole più grandi e al centro i capostipiti e poi via via come due ali i morti “minori” e infine gli infanti, a volte fotografati da morti (i morticini), composti sul cuscino battesimale magari contornati dai pulcini psicopompi vestiti a festa per il viaggio che li attende. Per la visita rituale al cimitero, le cui tombe umili o padronali erano state accuratamente ripulite dai famigliari o dai braccianti (li soccə), il popolo in massa affluiva con candele e fiori e per carità e devozione insieme accettava di pagare un obolo a poveri che si offrivano di recitare le “diasillə” a favore dei defunti del benefattore.

La sera di vigilia, ricordiamo che con il sistema dell’ora italica un tempo le ore 24 coincidevano con il tramonto, si preparava la tavələ de li murtə dato che i morti ritornavano quella notte alla loro antica dimora per divorare la parte spirituale del cibo accuratamente preparato e disposto. Non in tutte le case si ricorreva a una tavola lautamente imbandita ma simbolicamente un piatto coperto di cibo veniva sempre lasciato in caldo. Innumerevoli sono le storie di giovanotti affamati che mangiavano questo cibo sacro facendo poi trovare il piatto vuoto, ma si tratta di racconti apocrifi. Il superstizioso tabù di mangiare nello stesso piatto del defunto poteva essere superato solo nel giorno della festa cioè il 2 di novembtre in cui anche i vivi potevano mangiare di grasso. Infatti le vivande della tavola dei morti erano finanche un banchetto la tavola imbandita per i defunti, pastasciutta, (lə sagnə), l’arrosto, i sottolio, le frittelle (le rəvòtəchə) fritte nell’olio nuovo, la frutta secca e come simbolo di continuità un frutto di melograno. Vuole una interpretazione suggestiva che mangiando nel giorno seguente tali cibi ci si riconciliasse con i propri defunti avendo banchettato alla stessa mensa.

I piatti con il cibo erano incoperchiati, tanti quanti erano di defunti “ricordevoli”. Tutto pronto si accendevano le candele che si sarebbero consumate al termine del pasto dei ritornati defunti. Cibi sacri ai defunti, che i vivi potevano consumare nella vigilia, erano solo le fave secche bollite con alloro (riccə) e il grano saraceno condito con noci sapa e chicchi di melograno (‘rranə acconcə). In parallelo, in occasione dello spirare di un famigliare al ritorno a casa dopo il funerale, familiari e parenti stretti, addolorati e silenziosi, non dovevano provvedere ad alcuna incombenza. Il vicinato portava il cònsolo, consistente nel pranzo, preparato rigorosamente fuori dalla casa del defunto, da servire a tutti sulla tavola, senza tovaglia, dove era stato deposto il morto. Nel cònsolo dovevano esserci il brodo di gallina, considerato un cibo purificatore e al tempo stesso tonificante, ed altri cibi frugali (salumi, formaggi, dolci) il tutto sempre preparato all’esterno da vicini e parenti. Le quantità dovevano essere abbondanti e gli avanzi non si potevano portare indietro dalla casa dei familiari del defunto perché un eventuale spirito imprigionato avrebbe potuto seguirli. Un pasto corroborante e consolatorio appunto e infine l’elaborazione del lutto: Na piand’e na magnàtə də maccarùnə.