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I miti e riti del vino, ampia partecipazione di pubblico ai percorsi tematici di 'musA' nei musei di Villa Frigerj e La Civitella

Nel linguaggio antico del cibo l’antico brocardo “in vino veritas”. Ma, nel caso dei “Miti e Riti del Vino”, l’adagio acquista un valore identitario, sacrale ed anche discriminante in senso sociale. Dunque, non tanto o non solo la bevanda più o meno alcolica di cui è pregna la vasta letteratura mondiale sulle eccellenze eno-gastronomiche dei territori. Piuttosto una “idea”, quella della assimilazione dell’uomo al mito degli dei, alla cornucopia dell’abbondanza ed al calice del nettare tanto caro a Dioniso. Che libera l’ebbrezza del sentirsi partecipi di un universo confluente nella “zoè” greca: l’assoluto ispiratore della vita e che supera la morte attraverso il traghettare delle ‘ombre’ dei defunti nell’Ade. Secondo appuntamento del ciclo “Il linguaggio antico del cibo”, organizzato da “musA” [sodalizio concessionario per i servizi concernenti percorsi educativi ed attività culturali con capofila “Pegaso Srl”] ieri pomeriggio sull’asse museale “Villa Frigerj”-“La Civitella”. Eccellente il riscontro di pubblico, segno evidente che fare Cultura a certi livelli è certamente remunerativo, nonostante i limiti, non ancora sanati, della carenza endemica di personale che condiziona la regolare apertura della rete museale del capoluogo. Impegnati nell’accoglienza delle due prestigiose Strutture ciò che resta del personale falcidiato dai recenti pensionamenti ed un piccolo nucleo di sette unità di lavoratori socialmente utili in mobilità dal Comune di Chieti. Presente alla manifestazione, anche per la verifica delle sinergie poste in essere con la Direzione del Polo museale, il vicesindaco con delega alla Culture, Paolo De Cesare. E partiamo da “Villa Frigerj” per parlare del vino con particolare riguardo al suo impatto nella civiltà italica e romana. La possente statua dell’Ercole ‘epitrapèzios’ [seduto a banchetto], riveniente dal sacello di Massa D’Albe [I sec. a.C.], evoca le pregresse ritualità legate al vino, illustrate dalla direttrice Valentina Belfiore nella sua interessantissima visita guidata attraverso i luoghi iconici, prevalentemente funerari, dell’Abruzzo preromano. “Non sempre”, dice la dottoressa Belfiore, “la presenza nei giacimenti archeologici di tracce ascrivibili al vino dimostra esigenze connesse alla quotidianità, spesso, come nelle sepolture arcaiche, si tratta di una costante direi ideologica perché legata al lignaggio del soggetto inumato, qui a Villa Frigerj abbiamo numerosi esempi di sepolture sia maschili che femminili nelle quali la collocazione, affianco ad armi e corredi personali, di olle, baccili e calici, che testimoniano le fasi del conservare, versare e consumare il vino, risponde alla necessità di rendere visibile l’elite cui apparteneva il defunto”. La carrellata nel mondo sacrale e rituale della gens italica, dai Pretuzi a Vestini e Peligni, dai Marrucini a Carecini e Frentani è avvincente. Un excursus temporale che va dal X secolo a.C., in alcuni casi anche oltre come per la prima fase delle necropoli di Fossa e Bazzano con i loro caratteristici tumulazioni a circolo e ‘menhir’, al II secolo a.C. quando inizia la romanizzazione. Contiguità culturali e comportamentali tra i vari popoli abruzzesi ma anche differenze a seconda della più o meno marcata propensione al commercio ed alla conseguente dotazione delle tumulazioni con ‘arredi’ di “importazione”.

E’ il caso delle citate necropoli di Bazzano e di Fossa, ricche di reperti fittili rivenienti dall’Etruria e dagli scambi col mondo greco. Numerose anche le affinità con le necropoli di area Sabina “tanto da rendere ipotizzabile”, spiega Valentina Belfiore, “una diversa origine dei popoli Italici”. Le sobrie sepolture della necropoli di Campovalano accreditano invece quelle popolazioni di una maggiore stanzialità. Vasellame ceramico ma anche armi da offesa nella tomba 38 della necropoli di Comino al confine tra Marrucini e Carecini. Ed ancora vasellame, spesso volutamente frantumato sullo strato superficiale delle sepolture e poi ricostruito dagli archeologi per rappresentare ai visitatori questi importanti segmenti di archeologia legata agli usi ed alle tradizioni. Sullo ‘sfondo’ del percorso tematico per l’occasione allestito al Munda di “Villa Frigerj”, le stele di Guardiagrele e Rapino, e poi “lui”, la star indiscussa del museo, il “Guerriero di Capestrano”. Nelle ceramiche tracce di formaggi, farine, focacce di miele. Ed ovviamente [di] vino, più vicino al mosto, però. Vino meno denso, invece, veniva dai latini utilizzato ai soli fini sacrificali per irrorare gli animali prima della loro immolazione agli dei. Dalle fonti antiche e da motivi allegorici tratti da elementi fittili si apprende, in particolare, che era prassi aspergere di vino i tori fra le corna appena prima del sacrificio. Insomma, come lo si gira e rigira, “il vino”, dice Marcello Iannicca, direttore del museo “La Civitella”, “ha assunto sempre un ruolo di rilievo nell’archeologia, la bevanda degli dei era nei baccanali l’elemento centrale dell’incontro tra la cultura italica e quella greca legata a Dioniso”. Anche sull’Arce, dalla quale svettano i resti dell’Anfiteatro romano di Teate, incoraggiante affluenza di pubblico, col museo ed attiguo parco archeologico oggetto di una importante domanda di Cultura.

“Appuntamenti come questi concepiti ed organizzati da ‘musA’”, dice Roberta Iezzi, insegnante e referente del sodalizio, “costituiscono occasioni di indubbia crescita per il tessuto sociale della Città, l’esserci affidati ad esperti, veri e propri nomi di rilievo nel panorama didattico e scientifico italiano, è un viatico di assoluta affidabilità in vista del nuovo anno scolastico”. “Dopo l’iniziale incontro dei primi di aprile sul linguaggio antico del cibo, relatori Silvano Agostini ed Aurelio Manzi, abbiamo voluto spostare l’attenzione”, interviene Paola Riccitelli, archeologa e componente, insieme a Rodolfo Carmagnola [presidente di Pegaso Srl], dello staff di ‘musA’, “sulle valenza sacrali ed identitarie del cibo e, dato il tema dell’incontro, sulla ritualità mitologica del vino”. E qui interviene Luca Cerchiai, ordinario di etruscologia all’Università degli Studi di Salerno, nel suo appassionato intervento su “Dioniso ed il Simposio Etrusco”. “Vorrei sottolineare”, spiega nell’incipit della sua relazione il professor Cerchiai, “l’importanza che Dioniso e la pratica del simposio [dal latino ‘simposium’, letteralmente ‘con bevanda’] hanno presso gli Etruschi, tanto da indurli a rivestirne di specifici contenuti diremmo ‘di importazione’ il loro dio Fufluns”. Il cattedratico opera chirurgici allacci e connessioni tra il vino, quale bevanda propiziatoria ma anche sacrale nei riti funerari, e la visibilità che il suo referenziato utilizzo assicurava alle grandi aristocrazie dell’antichità. E la storia del modo di ‘leggere’, oltre che consumare, il vino [per Cerchiai: “il vino dona ebrezza ed allegria facendo conoscere al suo consumatore diverse forme esperenziali che lo avvicinano a Dioniso”] passa anche per veri e propri ‘giornali’ fittili in associazione con i miti degli eroi e delle divinità greche. Autorevoli esempi arrivano dal ‘Vaso di Aristonothos’ [650 a.C.], firmato -dall’artigiano che lo realizzò- con lo pseudonimo ‘Nessuno’, quasi a volersi accomunare ad Odisseo [Ulisse] che prima di accecare Polifemo [al quale nulla servirono le sue “capacità profetiche”] lo stordì con una coppa di vino.

E dal ‘Vaso Francois’ [dal nome del suo scopritore], punto centrale e nodale della relazione di Luca Cerchiai, che costituisce la ‘new entry’ di Dioniso nelle rappresentazioni mitologico-allegoriche di VI secolo a.C. Nello stupendo cratere del 570 a.C., di produzione attica rinvenuto a cavallo tra il 1844 ed il 1845 a Chiusi ed ora esposto al Munda di Firenze, Dioniso è ritratto in diverse scene, tra le quali quella in cui è raffigurato frontalmente, con un’anfora di vino sulle spalle, e nel periodo arcaico la raffigurazione frontale è una peculiarità che non viene mai sperimentata a caso. “Come non a caso”, conclude il professor Cerchiai, “le sepolture recavano corredi, nel senso che tale caratterizzazione stava ad indicare l’elevato ceto degli inumati confermandosi dunque che nell’antichità il diritto di sepoltura assistita da corredo funerario di pregio non era indifferenziato”. Ed il recipiente di buon vino che spesso, in concorso con effetti personali e -per le sepolture maschili- armi, veniva inumato accanto alle spoglie mortali del “padrone di casa”, era il biglietto da visita per celebrare rango e visibilità sociale dell’interessato. Conclusione con la degustazione di vino in anfora e rivisitazioni, a cura di Maria di Iorio [archeologa e componente lo staff di ‘musA’] e Franca D’Aloisio [responsabile allestimenti di ‘musA] di piatti e bevande della tradizione italica: salsiccia di capra e spiedini con pane alle olive-formaggio di capra-miele-mandorle-noci; miscela di vino-acqua-miele-mirto-timo. I ‘mecenati’ di questo percorso tematico sui “Riti e Miti del Vino”: ‘musA’ ringrazia ‘Banca Popolare Puglia e Basilicata’ filiale di Chieti, ‘ScariMec’ -meccanica di precisione- Chieti, ‘Cantina Feudo Antico’ Tollo. Patrocinio Comune di Chieti.


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