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La storia di Chieti entra in classe: incontro al museo universitario tra gli studiosi del Cenacolo teatino e le scolaresche del "G.B. Vico"

Chieti Città della Camomilla? Forse di un certo trasformismo, come in ogni epoca ed in tante latitudini. Ma di certo quella espressione, coniatale su misura nel 1926 dall’inviato del Resto del Carlino, il giornalista Alberto Mario Perbellini, in occasione del ‘Processo Matteotti’, non le rende merito. Fotografandone i ritmi quieti e pacati ma non anche la storia. Che non è stata sempre propriamente “tranquilla”. Accomodante sì, verso i regimi di turno. Non per questo “neutra”, dal punto di vista di passioni, fermenti anche rivoluzionari, spirito di avventura. E capacità di entrarvi in quella Storia. Nel bene e nel male. Nel grigiore a volte. Ma anche nello “splendore” di accadimenti e pensiero critico rintracciabili in frammenti di segno inverso. E’ partito, con un primo ciclo di relazioni ospitato nell’auditorium del Museo di Scienze Biomediche dell’Università Gabriele D’Annunzio, il programma di confronto tra studiosi e scolaresche del “Gian Battista Vico” sul ruolo del capoluogo teatino nel contesto delle dinamiche del territorio abruzzese, e non solo, dall’età antica ad oggi. Ieri è stata la volta della “Chieti, dall’unità d’Italia ai nostri giorni”, sottotitolo “Lotte, idee, culture e personaggi”.

Relatori, due componenti del sodalizio culturale “Il Cenacolo Teatino”: Raffaele Bigi, saggista e storico, e Marino Valentini, economista e storico. Entrambi con alle spalle numerose pubblicazioni e “con il comune amore per una Città”, dice il professor Giovanni Scarsi, docente di storia del liceo Vico ed organizzatore dell’evento, profondo conoscitore della figura e del pensiero di Antonio Gramsci, “della quale non sappiamo ancora tutto disponendo per lo più di notizie attinte ed attingibili dalla grande comunicazione quando invece dovremmo soprattutto scandagliare nei particolari, interrogarci ed informarci su come recuperarne le radici e su cosa essa possa dare e trasmettere in termini di mentalità, cultura, ideologie”. E per raggiungere lo scopo di una informazione più dettagliata e meno massiva, era necessario rivolgersi a chi fa della ricerca scientifica, nell’accezione della rigorosa ricognizione storico-documentale, un collaudato modus-operandi. Bigi e Valentini dissertano sull’Italia unitaria e pre-unitaria. Partendo dalle vicende del Regno delle Due Sicilie e di quel casato, i Borbone, per alcuni studiosi sacrificato da interessi ultranazionali e poi utilizzato dal Regno Sabaudo come forziere di una unità territoriale mai propriamente compiuta. “L’Italia doveva farsi”, spiega Valentini, “su questo non c’è dubbio, ma non in quella maniera, come ammesso dallo stesso Giuseppe Garibaldi che nel 1868 parlerà di danni ingenti alle popolazioni meridionali, col rammarico di aver suscitato ‘squallore ed odio’, sono sue parole, in una guerra fratricida”. Tra gli studenti delle classi quinte del liceo teatino, la voglia di sapere è grande.

E non mancano perplessità su ciò che viene percepito come processo revisionista del Risorgimento. “Mi chiedo e chiedo”, dice Alessio Ponente con una spiccata padronanza nell'argomentare, segno questo, ed al di là del merito, della bontà dell’azione formativa del plesso scolastico di corso Marrucino, “se una chiave di lettura di quelle vicende orientata verso le ragioni della dinastia di Ferdinando II, sulle quali di recente si sono criticamente espressi storici della caratura del professor Alessandro Barbero, possa eventualmente favorire una sorta di apologia borbonica, infatti non capisco il perché il Regno di Sardegna avrebbe avuto interesse ad annettere un altro regno, quello delle Due Sicilie, per poi farlo sprofondare nella miseria”. Insomma, una bella interazione tra il corpo discente, quello docente e gli addetti ai lavori. Ai quali non è difficile, con Valentini, sciorinare cifre [ad esempio sul PIL delle due Italie del tempo, sullo ‘spread’ dell’epoca e sul valore dei titoli di Stato del Regno delle Due Sicilie], citare eccessi nel processo di “piemontesizzazione” di intere aeree [ad esempio la distruzione nell’estate del 1861, ad opera delle truppe del generale Cialdini, dei due paesi campani di Pontelandolfo e Casalduni], evidenziare le contraddizioni della disfatta sul campo dei Borbone [con i vertici militari passati al nemico ed i soldati, senza guida, rimasti invece fedeli alla Corona]. Ed ancora: narrare curiosità [la ‘ghigliottina di Chieti’, lo sbarco di Garibaldi in un porto di Marsala controllato dalla potente flotta borbonica e ‘monitorato’ di converso dalla strategica presenza di un vascello da guerra inglese] e verità scomode [la nascita del primo campo di internamento per prigionieri nella fortezza alpina di Fenestrelle, non proprio luogo di villeggiatura per migliaia di soldati borbonici che a seguito di quella detenzione persero la vita], elencare pareri e posizioni autorevoli [La Farina, Ferrari, Villani], analizzare a tutto tondo gli inneschi e le ricadute del brigantaggio [illustrata la legge Pica del 1863 di contrasto al fenomeno anche se indirettamente varata in chiave di definitiva eliminazione degli ultimi, clandestini focolai di resistenza borbonica], focalizzare un certo “gattopardismo” quale costume non solo siciliano [che non risparmiò ai notabili del tempo imbarazzanti episodi di piaggeria verso i Savoia]. Un esempio che riconduce il discorso alla nostra Città? Quello del generale Giuseppe Salvatore Pianell, comandante borbonico della piazza d’armi di Chieti, “che da ministro della Guerra del Regno delle Due Sicilie”, così illustra Marino Valentini, “venne nominato generale del Regno d’Italia dopo aver riparato prima a Torino e poi in Francia”.

Ad inizio dei lavori, Raffaele Bigi aveva navigato con appassionata competenza tra l’assetto architettonico e socio-economico della Chieti a cavallo tra 1800 e 1900, mettendo in risalto la funzione di sue meritorie Istituzioni nei settori bancario e produttivo [la Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti, la Camera di Commercio con aziende storiche come la distilleria Barattucci che nel 1863 fu la prima ad affiliarsi all’associazione di categoria]. Ma non solo arti e mestieri. Pure storia delle nobili famiglie teatine, tra cui i Valignani ed i Nolli, cultura, poesia e politica con l’esperienza scolastica di Gabriele D’Annunzio che fu alunno proprio del Vico ed a Chieti conseguì la cittadinanza onoraria in occasione della ‘prima’, al Marrucino, del suo poema “La Figlia di Iorio” [1904] e le visite, sempre nella Città d’Achille, di Giosuè Carducci [1879] e dei Reali d’Italia [1905]. I ritmi della narrazione crescono. Il materiale della trattazione è imponente. Le diapositive proiettate sul palco dell’auditorium museale in Piazza Trento e Trieste evidenziano altre storie epocali come quella di Chieti Città Aperta e dei Patrioti della Banda Palombaro. Ma il tempo corre e non v’è spazio per tutti gli approfondimenti nonostante l’accuratezza dei relatori. Il professor Scarsi parla delle “saldature tra la borghesia del nord e gli agrari del mezzogiorno” e del mancato seguito, o comunque rallentamento, anche in Abruzzo di “quel processo di scolarizzazione gratuita ed obbligatoria pur avviato fra tanti limiti dai Borbone”. E poi alcuni nomi e profili poco conosciuti della storia teatina post-unitaria. Se ne incarica Valentini che attraversa ‘colori’ e volti differenti e tra loro molto diversi: dal Principe Valerio Pignatelli, anticomunista convinto, protagonista di imprese al limite del fantastico, addirittura eletto “imperatore” -ma l’esperienza durò appena un mese- nella regione messicana della ‘Oaxaca’ dove aveva guidato una improbabile rivoluzione, fascista della prima ora e sfidante in duello del potente segretario del PNF Roberto Farinacci, agente segreto della RSI infiltratosi rocambolescamente nelle fila del comando americano in Italia, nel dopoguerra tra i fondatori del MSI; al tipografo anarchico ed antifascista Camillo Di Sciullo ed al suo collaboratore Severino Di Giovanni che emigrò in Argentina per proseguire in relativa libertà la sua azione anarco-insurrezionale ma che in quella terra, a causa di alcuni attentati ai danni di una banca e di un consolato americano, venne fucilato a seguito di formale condanna a morte; al gerarca Guido Cristini, magistrato e presidente del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, zelante interprete dell’ordine di Regime a tal punto da ‘infastidire’ lo stesso Mussolini che lo indusse a dimissioni, nell’immediato dopoguerra riparato in Vaticano e poi amnistiato nel 1946 dall’allora ministro di Grazia e Giustizia del Governo De Gaspari, Palmiro Togliatti; all’avvocato Pasquale Galliano Magno, di Orsogna ma a lungo residente a Chieti, che patrocinò gli interessi della vedova Matteotti ricevendo pressioni e ripetute minacce dallo stesso, citato Cristini.

Tra i commenti a margine di questo lungo percorso della Citta di Chieti nella Storia d’Italia, quelli di Pietro Di Sipio, della classe 5 B [“una occasione per capire la storia della Città e per meglio comprendere come siamo arrivati a certe situazioni”] e Deni Scarsi, della classe 5 A [“relazioni che fanno presa e ci fanno riflettere su tutti quei miti consolidati, tra cui quello di Chieti Città della Camomilla, capaci di indurci a studiare i fenomeni storici cittadini nei loro diversi contesti, anche se poi è inevitabile procedere alle cuciture ed alle dovute conclusioni anche nel lungo periodo”]. La chiusura ad una insegnante del G.B. Vico, la professoressa Carla Fusco, docente di Inglese: “i miei alunni hanno avuto modo di interloquire con scolaresche turche, molto addentro nelle loro eccellenze storiche, artistiche e di tradizione, ecco conoscere meglio Chieti, il suo ricco passato ed il suo DNA culturale, contribuirà certamente ad una migliore interazione tra scuola e giovani affinché quest’ultimi, sia nelle vesti di studenti che di cittadini, possano restare sempre stupiti da un ambiente così fertile di vissuto e di proposte”.


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